Agostino Clemente è avvocato, socio dello studio Ughi e Nunziante e docente di Diritto Industriale presso…
“Il Diritto delle Comunicazioni. Studi e Capitoli.” Intervista all’autore, il Prof. Vincenzo Franceschelli

Vincenzo Franceschelli come professore straordinario prima, e poi come ordinario, ha insegnato nelle Università di Trieste, Siena, Parma e Milano e Milano-Bicocca. Ha insegnato, per oltre venticinque anni, Diritto Privato presso l’Accademia della Guardia di Finanza a Bergamo, è stato membro del Senato accademico dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca dal 2012 al 2015.
È stato Visiting Professor presso la Seton Hall University Law School di New Jersey, USA, nel 1985 e nel 1995. Nel 1983, nel 1984 e nel 1987 è stato Visiting Professor presso la Temple University Law School nel Rome Summer Program. Nel 1988 è stato Coordinatore della Seton Hall Parma Summer Program. Ha usufruito del Fellowship Program for Research in Japan, della Japan Society for the Promotion of Science, JSPS (Maggio 2003) Ha insegnato nell’ambito del programma Erasmus in Spagna (Universidad de La Laguna). È autore di numerose monografie e di contributi scientifici in varie riviste. È stato relatore in numerosi Congressi internazionali.
È direttore responsabile della Rivista di Diritto Industriale, edita da Giuffrè. È membro della direzione scientifica di numerose riviste giuridiche. È autore di un Manuale di diritto privato, giunto, nel 2022, alla nona edizione.
Il Prof. Vincenzo Franceschelli
Approfondendo la Sua recente pubblicazione “Il Diritto delle Comunicazioni. Studi e Capitoli”: ritiene potrebbe essere utile il Metaverso nella vita di tutti i giorni e quali sono gli aspetti che ritiene invece più critici in merito alle sfide comunicative poste dalla piattaforma?
Nella tumultuosa evoluzione delle comunicazioni – che ho cercato di tracciare nel mio volume – abbiamo assistito all’ingresso nel sistema di numerose “innovazioni” considerate rivoluzionarie nel momento in cui furono rese note al pubblico. Alcune sono rimaste, altre si sono dissolte nel tempo: tutte, al loro apparire, hanno suscitato reazioni contrastanti, alcune entusiastiche, altre scettiche, altre critiche. Il telegrafo elettrico fu osteggiato, in quanto avrebbe comportato la dismissione del sistema del telegrafo ottico, che era stata costosa e complessa.
Altre “innovazioni” hanno sconvolto assetti considerati consolidati: quando incominciarono a diffondersi i messaggi di posta elettronica, e poi WhatsApp, pochi capirono che le nuove metodologie di trasmissione del pensiero avrebbero messo in crisi le poste, che furono, per millenni, il sistema delle comunicazioni interpersonali.
Oggi tutti parlano del Metaverso, molti senza averlo conosciuto o nemmeno provato. Il Metaverso è entrato così nell’immaginario collettivo, ma non ancora nella vita concreta di tutti e di tutti i giorni.
Non sappiamo, quindi, se si tratta di una moda effimera, o di una realtà virtuale destinata a durare nel tempo e a cambiare la nostra vita. Metaverso è comunque definito (o percepito) come un ambiente virtuale interattivo, che esprime al meglio le proprie potenzialità se percepito in 3D, in genere abitato da persone digitali (gli Avatar), in cui gli utenti possono interagire tra loro e con oggetti virtuali (per esempio gli NFT), il tutto in tempo reale (e, aggiungo, con una connessione Internet veloce e potente). Non esiste tuttavia un solo Metaverso, ma tanti mondi creati e gestiti da soggetti diversi, ognuno con una precisa identità. Darne quindi una singola definizione può essere riduttivo, soprattutto considerate le potenzialità creative di questo mondo digitale.
Coloro che entusiasticamente ne apprezzano le potenzialità, ne segnalano i possibili impieghi positivi: nel campo medico, per esempio.
Se il grande pubblico è ancora timoroso, le imprese cercano di scoprirne e sfruttarne le potenzialità: promozione, marketing, vendite “virtuali”.
Bill Gates – e le imprese di comunicazione, come lo stesso WhatsApp, Teams o Zoom, per esempio – pensano al Metaverso anche come una evoluzione delle piattaforme di comunicazione nel mondo del lavoro. Non faremo più le riunioni seduti ai nostri computer, ma partecipando attivamente con i nostri avatar.
Le critiche, a mio giudizio fondate, attengono all’impatto della realtà virtuale alle relazioni sociali, e quindi sulla nostra stessa società umana.
Si pensa soprattutto ai giovani (ma non solo). L’isolamento sociale sofferto nella pandemia, e la stessa didattica a distanza, ha determinato, per molti, una crisi nella capacità di rapporti interpersonali. La “solitudine” della vita virtuale ha determinato scompensi, incapacità di relazionarsi e, in qualche caso, propensione alla violenza.
Si teme, quindi, che l’umanità, in un futuro prossimo, dimentichi la dimensione reale del vivere, per annullarsi in una dimensione immateriale, priva di contatti umani, effimera e onirica … Una visione, per ora, da film di fantascienza (ma non priva, come molti romanzi classici di fantascienza, di oscure anticipazioni e profezie).
Potrebbe spiegarci cosa sono gli NFT e a che punto è la legislazione italiana in merito?
Tutte le volte che un fenomeno nuovo si pone all’attenzione della società assistiamo a due tipi di reazioni. Molti invocano un immediato intervento risolutore del legislatore. È la cosiddetta invocazione al legislatore demiurgo. I giuristi sono più prudenti. La storia millenaria del diritto insegna che le norme nascono dalla pratica. Sorgono controversie. Esse vengono portate alla decisione del giudice. Quando il corpo delle decisioni si fa articolato, il legislatore le raccoglie, le ordina, seguendo, di regola, l’orientamento della giurisprudenza. Così fu per il diritto romano, la madre di ogni diritto. Ci vollero oltre mille anni per giungere alla compilazione giustinianea.
Fino a quando questo processo non si completa, i giudici tendono ad applicare alle controversie su fenomeni nuovi regole consolidate. Così è successo nell’unico caso a me noto, deciso dal Tribunale di Roma. In quella decisione – ben nota in quanto la prima in Italia tema di NFT e tra le prima al mondo ad esaminare da un punto di vista giudiziale questi nuovi asset – il giudice applicò i principi generali del diritto industriale e – in particolare – dei marchi d’impresa, difendendo i diritti di un titolare di un marchio notorio, il marchio Juventus.
Prematuro quindi, a mio avviso, pensare ad una legislazione “italiana” ad hoc.
Questo non significa che fin d’ora i soggetti attivi nelle attività di creazione, promozione e vendita di NFT non si affidino alle regole generali del diritto privato per regolare rapporti e cercare di prevenire conflitti.
Ma prima di procedere, vediamo di capire cosa sono i NFT e quali problemi pongano a chi li crea e li usa.
NFT è l’acronimo di “Non-Fungible Token”. Un NFT è un tipo di token crittografico registrato su blockchain che essenzialmente costituisce la chiave di accesso ad un bene digitale (o anche fisico) unico, e che in genere è salvato su una diversa piattaforma. A differenza delle criptovalute (come Bitcoin o Ethereum, che sono fungibili e possono essere sostituite tra loro) gli NFT sono unici, e certificano l’unicità del bene digitale a cui sono collegati.
Il fatto di essere “unici” sollecita, e risponde, alla propensione umana al collezionismo. Da sempre l’uomo colleziona oggetti, e si compiace di possedere oggetti unici. Con la differenza, nel nostro caso, che un NFT è immateriale (e quindi effimero). Opere d’arte virtuale (la c.d. crypto art) assumono valore grazie all’unicità garantita dalla forma (virtuale) di NFT e alla certezza dei dati inseriti su blockchain.
Che di NFT esista una domanda (grande o piccola che sia) lo dimostra il fatto che sono nati e sviluppati veri e propri mercati per questo tipo di transazioni (i c.d. NFT Marketplaces). Sembra ve ne siano nel globo oltre un centinaio, e forse il più famoso è OpenSea, con sede a New York (anche se, negli ultimi tempi, vi sono segni di riduzione della domanda, conseguente la diminuzione del numero dei visitatori, che pare causata anche dalla crescente attenzione delle autorità statunitensi per questi asset) .
Oltre a soddisfare la umana passione per il collezionismo, gli NFT hanno suscitato un enorme interesse tra le imprese – soprattutto del lusso – negli ultimi anni. Penso a Louis Vuitton, Gucci, Nike, per esempio. Tiffany ha lanciato i NFTiffs (che assicuravano agli acquirenti una specie di ciondolo dalle sembianze di un’opera in pixel, se non ho capito male), subito sold out.
E qui sorgono problemi giuridici. Le grandi marche debbono supervisionare la vendita digitale degli NFT e dei relativi asset digitali, garantire ai compratori il pacifico godimento del bene compravenduto (anche nel Metaverso il venditore deve garantire il compratore dall’evizione) e assicurarsi nel contempo di non pregiudicare i propri diritti sulle opere digitali collegate agli NFTs, concedendo – per esempio – al compratore quel tanto che basta per poter usare l’NFT senza violare i diritti di esclusiva che il brand intende riservarsi.
Il ricorso – che si vede nell’esperienza pratica – è alle norme generali sul contratto e sui diritti di proprietà intellettuale. E la costruzione di garanzie idonee per chi compra questi beni “immateriali”. Vi sono stati casi di NFT sottratti o rubati. E casi di NFT che contraffanno titoli materiali (come il caso Juventus che abbiamo ricordato).
Queste ipotesi – e incertezze – spingono le imprese a adottare una regolamentazione scrupolosa dei propri NFT attraverso accordi sempre più specifici e smart contracts. Si tratta, in sostanza, di elaborare condizioni generali di contratto e licenze, e di farle accettare con le cautele del caso, su piattaforme non sempre costruite in maniera tale da permettere facilmente il rispetto delle regole da parte di acquirenti e venditori; di regolare limiti alla commercializzazione e vendita degli NFT; di elevare cautele a difesa dei diritti di proprietà industriale e prevedere clausole risolutive in caso di inadempimento (con i soliti problemi (irrisolvibili?) di legge applicabile e di diritto internazionale privato).
Una cosa è comunque certa: se vi sono soggetti che creano NFT e soggetti che li acquistano, possiamo dire che per noi i NFT sono “beni” in senso giuridico, ai sensi dell’art. 810 del nostro codice civile “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Artificial Intelligence, quali sfide pongono alle norme sulla proprietà intellettuale?
Ho detto e scritto più volte che Intelligenza Artificiale è un termine equivoco, e, in un certo senso, fuorviante. I software, le macchine, i robot non sono “intelligenti”. Sono programmi che possono fare (infinitamente) più velocemente (e qualche volta meglio) ciò che ha già fatto l’uomo.
Nel rispondere alla domanda, parto, quindi, dalla fine: nei rapporti tra IA e diritto, è mio profondo convincimento che il diritto – nella sua evoluzione millenaria e nella sua stessa struttura dogmatica – è fatto per l’uomo e modellato sull’uomo. Manifestazione di volontà, errore, violenza, dolo, imputabilità, autonomia privata e così via sono concetti, nozioni, istituti modellati sull’uomo, e non possono essere riferiti ad una macchina, o ad un software, ancorché sofisticato o Machine Learning AI.
Questo approccio “minimalista” (in relazione alla comparazione con l’intelligenza umana) non pregiudica l’analisi dei problemi giuridici. È una macchina (embodied o non-embodied che sia) che, pur non essendo (ancora) dotata di “umana” intelligenza, è in grado di “simularla”, e quindi di apparire “intelligente” all’uomo con cui interagisce.
L’AI (nonostante tutto, occorre arrendersi al nomen ormai universalmente accettato e diffuso) ha infatti eccezionali capacità tecniche e dà sorprendenti risultati.
Se immettiamo nel “cervello” della macchina (l’Intelligenza Artificiale si nutre di dati e li elabora) tutte (dico tutte) le opere di Antonio Ligabue o di Gino Paoli, la macchina, mischiando il tutto, dovrebbe essere in grado di dipingere un quadro “stile Ligabue” o una canzone “stile Gino Paoli”. Ed è in grado – come è successo – di creare un fumetto: è il caso della piattaforma Midjourney e del fumetto Zarya dell’alba (Zarya of the Dawn).
I primi conflitti sorgono, così, nell’ambito del diritto d’autore. Emblematico il Caso Getty Images (un’agenzia fotografica con sede a Seattle con un archivio – si dice – di 80 milioni di immagini) che ha fatto causa a Stability AI (un elaboratore digitale di immagini) per violazione del copyright.
I problemi sono, così, due: 1) l’opera “nuova” computer-generated è riferibile alla macchina? 2) l’opera “nuova” computer-generated viola il diritto d’autore?
In altre parole, l’opera è frutto della macchina, o degli autori “copiati” o da cui ha tratto “ispirazione”?
E per noi: l’opera creata dalla macchina è “creativa”? Costituisce una “opera dell’ingegno di carattere creativo” di cui all’art. 1 delle Legge sul diritto d’autore?
Negli Stati Uniti (sempre all’avanguardia in questo tipo di cose e di cause) alcuni artisti hanno incominciato a far causa a macchine “creative” per violazione del diritto d’autore. Sostengono (in tribunale) che la macchina “crea copiando”.
Assumiamo, comunque, – per amor di confronto critico – che una macchina (la nostra Intelligenza Artificiale) possa essere riconosciuta autore (o autrice?) di una “opera dell’ingegno di carattere creativo”, opera computer-generated (o di un diritto a contenuto minore).
Supponiamo, quindi, che, negli Stati Uniti, la macchina (?) vinca la causa. E che sia riconosciuto “autore” (o autrice?) la macchina stessa e non chi la ideata o utilizzata. Dobbiamo chiederci quali diritti essa (uso il genere neutro, per semplicità) avrebbe. Se seguiamo la teoria dualistica – diritti patrimoniali e diritti morali – dubito che possiamo riconoscere alla macchina il diritto morale dell’autore. E quindi, per esempio, il diritto di ripensamento.
Resterebbero – quelli sì – i diritti patrimoniali. Quantomeno un diritto d’autore “dimezzato”.
Una volta entrati nell’ottica del diritto d’autore (dimezzato) sorgono irrisolvibili problemi. Irrisolvibile il problema della durata del diritto (70 anni dopo la morte). Una macchina muore? Alla sua (eventuale) morte, si apre la successione? Chi sono gli eredi? Ora, anche qui, i problemi non mancano. Bisognerebbe decidere se la macchina può fare testamento, o se si apre la successione legittima (ma anche qui …).
Meno stringente (al momento) il tema delle invenzioni industriali.
Se è difficile pensare ad una IA come autore (o autrice…) di opere letterarie ed artistiche, è egualmente difficile (al momento) considerarle inventori.
E ciò perché, se l’opera letteraria ed artistica nasce con la creazione (e quindi di nascosto), per essere “riconosciuti” come inventori occorre superare il sistema costituito dalle formalità richieste dal diritto e dalla (necessaria) procedura di registrazione. Occorre, quindi, superare positivamente la fase di deposito presso l’Ufficio brevetti e ottenere finalmente la concessione del brevetto. Qui, quindi, il controllo è sul nascere. L’Ufficio Europeo dei Brevetti, in uno dei pochi casi editi, ha deciso che “Deve essere respinta, ai sensi dell’art. 90 (5) CBE, la domanda di brevetto in cui venga indicato come inventore un sistema di Intelligenza Artificiale, per contrasto con i requisiti di cui all’art. 81 CBE e alla regola 19 Regolamento di esecuzione CBE”. E che: “La CBE non ammette che non-persone – vale a dire soggetti che non siano né persone fisiche, né persone giuridiche – vengano indicate in una domanda di brevetto come richiedenti, inventori o in qualsiasi altro ruolo nella procedura di concessione del brevetto”.
Esistono, però, aperture. Mi risulta, infatti, un “caso Australiano”.
È il caso della Federal Court of Australia la quale, con sentenza del 30 luglio 2021, ha ritenuto valida la registrazione di un brevetto per invenzione che designa come inventore un’intelligenza artificiale (DABUS, acronimo di Device for the Autonomous Bootstrapping of Unified Sentience, un sistema di intelligenza artificiale creato dal dottor Stephen Thaler) e come titolare il suo proprietario (caso Thaler v Commissioner of Patents [2021] FCA 879). Per la Corte australiana, l’Ufficio brevetti aveva errato nel respingere la domanda di brevetto (presentata, a quanto sembra da un certo dott. Tahler …) in quanto la legge brevetti australiana non offre una definizione di “inventore” per la quale lo stesso debba necessariamente consistere in un essere umano, esigendo solo che il titolare della privativa sia un soggetto dotato di capacità giuridica (si noti però che la causa è intentata da un essere umano). Nella pronuncia si enfatizza, in particolare, come l’intelligenza artificiale – specie quella machine learning – consista in collegamenti neuronali artificiali che riproducono in gran parte, nelle loro dinamiche di funzionamento, quelli umani, e come nel caso di specie il DABUS fosse una forma di «neurocomputing that allows a machine to generate new concepts which are encoded as chained associative memories within the artificial neuronal networks» (§ 35 della sentenza, motivazione di Justice Beach).
Dev’essere stata, questa, una di quelle cause “di principio” in cui il creatore di DABUS (il dottor Stephen Thaler appunto) desiderava attribuire alla propria creatura il dovuto riconoscimento …
In conclusione, mi sembra che il problema “pratico” – valido sia per la tutela autoriale che in materia di invenzioni – sia oggi la riferibilità “umana” dell’opera o della invenzione.
E questo, mi sembra, l’orientamento (pragmatico e condivisibile) del diritto inglese, il quale (in materia di diritto d’autore, e non di brevetti), con il classico practical approach, nel Copyright, Designs and Patent Act del 1988 (come modificato), dà prima una definizione di opera computer-generated (art. 178), per poi statuire che (art. 9, Authorship of work, n. 3) “In the case of a literary, dramatic, musical or artistic work which is computer-generated, the author shall be taken to be the person by whom the arrangements necessary for the creation of the work are undertaken”.
Certo, il diritto industriale si evolve. Segue il progresso scientifico e la creatività dell’artista. È cambiato in passato e cambierà in futuro. Ma è un diritto creato, come ho detto, per l’uomo, artista o inventore.