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Il ruolo della tecnologia e della regolazione nell’innovazione vegetale: dialogo con il Prof. Matteo Ferrari

Matteo Ferrari è professore associato di diritto agrario presso l’Università di Trento dove insegna diritto agroalimentare e globalizzazione, agrifood law e legislazione vitivinicola. Attualmente è altresì professore a contratto presso l’Università di Bolzano; in passato è stato professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, presso la McGill University e presso l’Università di Strasburgo. È stato responsabile del modulo Jean Monnet EUFLAG (EUropean Food Law And Globalization; 2020-2023), nonché vincitore di una Marie Curie Global Fellowship (2011-2013). È titolare della Cattedra Jean Monnet PESTRI (Promoting Equitable Sustainability Through Responsible Innovation; 2023-2026). È componente del consiglio direttivo dell’Associazione Italiana di Diritto Alimentare, nonché membro della Comunità scientifica di diritto agrario e fellow dello European Law Institute. Ha preso parte in qualità di relatore a convegni, nazionali ed internazionali, in materia di diritto agroalimentare ed è autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto agrario, alimentare e comparato.

 

Il Prof. Mattero Ferrari

 

L’evento Le sfide e le prospettive dell’innovazione vegetale tra tecnologia e diritto del prossimo 3 e 4 aprile affronterà il tema dell’innovazione varietale non solo dal punto di vista scientifico, ma anche dal lato regolatorio ed economico. Prof. Ferrari, in che modo la digitalizzazione e le nuove tecnologie in campo vegetale stanno trasformando la filiera agroalimentare, e quale impatto potrebbero avere sulla sostenibilità del settore?

Sebbene sia difficile prevedere l’impatto che le nuove tecnologie, in campo genomico ma anche digitale, potranno avere sulle filiere agroalimentari, è ragionevole ipotizzare che saranno in grado di incidere sul funzionamento del comparto in diversi modi. In primo luogo, le nuove tecnologie potrebbero rimodulare alcuni dei rischi considerati tipici delle attività agricole. Si pensi ai rischi ambientali: l’elaborazione, grazie anche a forme sempre più sofisticate di intelligenza artificiale, di dati provenienti da diverse fonti (satelliti, sensori, droni) potrebbe determinare non solo il forte ridimensionamento dei rischi derivanti, ad esempio, da periodi prolungati di siccità, ma anche nuove modalità di assicurazione in agricoltura. Un ulteriore esempio è rappresentato dai rischi di fitopatie: la creazione, attraverso tecniche di ibridazione tradizionale o di editing genomico, di varietà c.d. resistenti a determinate malattie potrebbe circoscrivere una serie di rischi considerati naturalmente parte del ciclo biologico vegetale. La questione della rimodulazione dei rischi in agricoltura ha grande significato anche nella prospettiva del giurista, sia perché potrebbe condizionare il contenuto dei contratti con cui si disciplinano la produzione e vendita dei prodotti agricoli, sia perché si è ritenuto tradizionalmente (ma non unanimemente) che tali rischi potessero giustificare la nozione speciale di impresa agricola contenuta nell’art. 2135 del nostro codice civile.

In secondo luogo, è probabile che le nuove tecnologie diano luogo ad una maggiore integrazione tra i diversi protagonisti delle filiere agroalimentari. Due esempi possono aiutare a meglio comprendere quale tipo di dinamiche si potrebbero avere in un prossimo futuro. Il primo è legato al passaggio da forme di c.d. precision agriculture a forme di prescriptive agriculture. Nella prima i dispositivi digitali (sensori, droni, etc.) e i servizi correlati sono pensati per fini diagnostici, e quindi per individuare eventuali fitopatie, situazioni di stress idrico o carenze di minerali che possono compromettere lo sviluppo della pianta; proprio perché ci si ferma alla fase di diagnosi, diviene poi necessario un successivo passaggio, in capo all’agricoltore, il quale decide autonomamente se e come intervenire. Nel caso della prescriptive agriculture, invece, si assiste ad un salto qualitativo nei servizi offerti, non più solo di tipo diagnostico ma anche curativo. In particolare, una volta individuato un problema la macchina è in grado autonomamente di intervenire per gestire quel problema (ad esempio irrorando la pianta con un certo composto chimico). Un secondo esempio è costituito da dinamiche di valorizzazione dell’innovazione in campo vegetale già relativamente diffuse: il riferimento è ai c.d. club varietali. Questi ultimi costituiscono una forma di sfruttamento delle privative in campo vegetale in cui la protezione viene estesa dalla pianta (di per sé l’oggetto della privativa) ai frutti prodotti dalla pianta stessa grazie ad una combinazione di marchi, standard tecnici, contratti e forme associative. In tal modo si realizza una forma di integrazione il cui fulcro è rappresentato dalla presenza di un club, normalmente creato dal costitutore della nuova varietà, cui è necessario aderire se si vuole prendere parte alla filiera produttiva. Vi è un secondo aspetto legato all’integrazione che merita di essere ricordato e che riguarda la combinazione sempre più sofisticata tra prodotti e servizi. Ad esempio, l’agricoltura di precisione consente di integrare la parte hardware (macchinari agricoli connessi e dotati di sensori) e la parte software (elaborazione dei dati provenienti dai macchinari agricoli), per cui lo stesso produttore offre entrambe le componenti: l’agricoltore, acquistando tale combinazione, massimizza le utilità che ne derivano, al contempo, però, accrescendo anche la sua dipendenza dal fornitore. L’aumento del tasso di integrazione reso possibile dalle nuove tecnologie può avere ricadute positive legate ad una maggiore efficienza nel funzionamento delle filiere, grazie alla possibilità che i diversi attori (produttori primari, trasformatori, intermediari, distributori) hanno di interagire in tempo pressoché reale, aumentando così il loro coordinamento. Al contempo, stanno emergendo preoccupazioni legate alla riduzione dello spazio di autonomia che residua in capo all’agricoltore, il quale potrebbe vedersi progressivamente sostituito da scelte effettuate da macchine o terzi, così come alla perdita di saperi e conoscenze locali e tradizionali, destinate a cedere il passo a fronte di servizi e prodotti pensati in base alle esigenze di una produzione agricola di massa geograficamente indifferenziata.

In terzo luogo, la concentrazione, in capo ai fornitori di input, di potere economico, ma anche computazionale e di know-how sta portando all’emersione di grandi conglomerati transnazionali che controllano larghe fette del mercato dei fattori di produzione. Ad esempio, si stima che più del 60% del mercato globale delle sementi sia controllato da quattro multinazionali; percentuale che arriva al 70% con riferimento al mais. Ad oggi le autorità antitrust hanno rappresentato un argine debole rispetto alle fusioni e acquisizione alla base delle concentrazioni appena ricordate. Il timore, più che fondato a mio parere, è che tali dinamiche aggravino ulteriormente la questione della distribuzione di valore all’interno delle filiere agroalimentari, problema che storicamente affligge il comparto. Tradizionalmente l’attenzione si è appuntata sul segmento a monte della filiera, evidenziando come la parte agricola, polverizzata in una miriade di piccole e piccolissime aziende, debba di fatto soggiacere alle condizioni imposte dai grandi operatori della trasformazione e della distribuzione organizzata. Oggi gli agricoltori si trovano di fronte a soggetti particolarmente forti e concentrati non solo nel segmento a monte, ma anche in quello a valle della filiera, ragion per cui il margine di valore che rimane al ceto agricolo rischia di essere ulteriormente eroso dalla presenza di questa sorta di tenaglia di mercato.

Provando ora a rispondere alla domanda sull’impatto che l’innovazione vegetale e digitale avrà sulla sostenibilità, credo che questo sarà prevalentemente positivo per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, potendo portare alla riduzione nell’uso di input quali pesticidi, acqua, fertilizzanti grazie ad un loro impiego più chirurgico e limitato. L’impatto sulla sostenibilità economica e sociale è allo stato, invece, un grande punto interrogativo perché ha a che fare con le condizioni (economiche e contrattuali) di accesso ai ritrovati frutto di queste nuove tecnologie; condizioni che è allo stato difficile stimare in quanto dipendono da molte variabili (ad esempio la natura del soggetto, pubblico o privato, che sviluppa l’innovazione oppure il tipo di innovazione messa a disposizione). Ciò a sua volta ha ripercussioni sulla questione della distribuzione di valore tra gli attori delle filiere agroalimentari, un tema centrale per la Politica Agricola Comune europea la quale prevede, tra le altre cose, che debba essere assicurato un tenore di vita equo agli agricoltori (art 39 del Trattato sul Funzionamento dell’UE). Esemplificando: i costi legati alla fornitura di servizi digitali o alle licenze per l’impiego di nuove varietà vegetali eroderanno ulteriormente il margine di valore che rimane in capo agli agricoltori? I fornitori di input attribuiranno un prezzo ai nuovi servizi e ritrovati tale da compensare le perdite di utile derivante dal fatto che in futuro, grazie a tali servizi e ritrovati, si impiegheranno meno input?

 

Durante l’evento verranno esplorate le connessioni tra ricerca, mercato e regolazione giuridica. Secondo Lei, Prof. Ferrari, quali sono oggi le principali sfide nell’armonizzare questi aspetti, soprattutto in relazione all’uso di strumenti digitali come l’agricoltura di precisione e le biotecnologie avanzate?

A mio parere la sfida principale riguarda la questione dell’accesso all’innovazione. Ciò pone il problema di individuare condizioni di accesso che siano remunerative per chi investe nello sviluppo di nuove tecnologie e, al contempo, giuste per gli agricoltori che devono utilizzare tali tecnologie. Si tratta di un equilibrio che non può essere lasciato alle pure dinamiche di mercato, ma che deve vedere la partecipazione attiva del settore pubblico e dei regolatori. Ciò per una serie di ragioni. La prima, e per certi versi più evidente, è che nel momento in cui il settore pubblico chiede agli agricoltori di dotarsi di tecnologie innovative per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di sostenibilità che ci si è prefissati, diviene necessario chiedersi anche chi metterà tali tecnologie a disposizione e (soprattutto) a quali condizioni. La seconda è che l’art. 39 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, nel delineare gli obiettivi della Politica Agricola Comune, impone di attuare soluzioni che garantiscano un reddito equo per gli agricoltori; anche in questo caso diviene in qualche misura ineludibile interrogarsi se e in che misura la necessità di ricorrere ad input sempre più tecnologicamente avanzati incida sul reddito del ceto agricolo. In terzo luogo, non va dimenticato che l’innovazione, specie vegetale ma anche in certa misura digitale, è realizzata grazie anche al contributo di enti pubblici di ricerca o, comunque, di finanziamenti pubblici. Si tratta quindi di valorizzare, in chiave di distribuzione del valore, il ruolo che il settore pubblico già gioca in termini di supporto e stimolo all’innovazione in agricoltura. Da ultimo, ma non certamente in termini di importanza, il comparto agroalimentare soddisfa importanti esigenze di ordine pubblico, in termini di sicurezza alimentare, di tutela del territorio, di conservazione del tessuto rurale. Tali esigenze da un lato giustificano la presenza di una Politica Agricola Comune a livello europeo e, dall’altro lato, devono spingere le autorità a far sì che gli agricoltori, che con il loro operare rendono possibile raggiungere tali obiettivi, siano in grado di accedere a condizioni eque a quei ritrovati tecnologicamente avanzati che permettono di ottimizzare le loro attività.

 

Ci spiegava di come l’innovazione tecnologica stia ridefinendo la distribuzione del valore nella filiera agroalimentare. A Suo avviso, quale ruolo potrebbero giocare strumenti digitali come blockchain, intelligenza artificiale e big data nel garantire maggiore trasparenza e un’equa ripartizione del valore tra fornitori di input e agricoltori?

Esistono tentativi di utilizzare soluzioni come quelle appena ricordate per accrescere il tasso di trasparenza delle transazioni che si svolgono all’interno della filiera agroalimentare. Blockchain, ad esempio, può meglio garantire la tracciabilità di una serie di attività (ad esempio metodi di coltivazione impiegati in campo, processi di trasformazione, origine geografica delle materie prime) che incidono su alcune delle caratteristiche finali dei prodotti agroalimentari scambiati. Ciò naturalmente può meglio garantire le qualità dei prodotti che acquistiamo, ma può anche contribuire ad aumentare la trasparenza dei meccanismi di formazione del prezzo, tenuto conto che non di rado il prezzo del prodotto scambiato dipende anche (se non soprattutto) dai tratti qualitativi che tale prodotto possiede (ad esempio se è biologico oppure se ha una certa origine geografica). Anche i big data possono aiutare a creare meccanismi più trasparenti di formazione del prezzo e una più equa ripartizione del valore. Esistono ad esempio piattaforme che raccolgono ed elaborano dati sulle transazioni di determinate derrate e li mettono poi a disposizione degli agricoltori. Questi ultimi hanno così la possibilità di accedere a informazioni aggiornate che permettono loro di negoziare i contratti di cessione dei propri prodotti tenuto conto dell’andamento dei mercati, questione molto delicata specie per quegli agricoltori che operano in paesi in via di sviluppo dove gli intermediari possono approfittare della mancanza di conoscenze per imporre loro prezzi particolarmente bassi. Rimane però, a mio avviso, che le soluzioni tecnologiche, quali che siano, non possono colmare il gap negoziale che esiste tra agricoltori e altri protagonisti della filiera, sia perché la tecnologia è di per sé neutra rispetto alla questione dell’allocazione del valore e, quindi, può supportare meccanismi con effetti tanto perequativi quanto sperequativi, sia perché tali strumenti richiedono know-how e abilità che spesso mancano ai produttori agricoli, per cui possono trasformarsi in un boomerang che li pone in una situazione di ulteriore debolezza.

 

Lei evidenzia come l’evoluzione delle normative sia stata influenzata dal progresso tecnologico. Quanto hanno inciso le tecnologie digitali e biotecnologiche sulla necessità di ridefinire la regolazione dell’innovazione vegetale, e quali strumenti giuridici potrebbero garantire un migliore equilibrio tra protezione della proprietà intellettuale e accessibilità all’innovazione?

Storicamente sappiamo che l’evoluzione tecnologica in campo vegetale, ma anche i modelli epistemologici che l’hanno accompagnata (tra tutti la distinzione tra ricerca pubblica e ricerca privata e, parallelamente, tra ricerca di base e ricerca applicata), ha fortemente condizionato lo sviluppo giuridico. Negli USA, la creazione delle prime forme di ibridazione del mais, finanziate da investitori privati, ha fatto sì che questi ultimi, negli anni ’30 del secolo scorso, chiedessero, da un lato, la soppressione dei programmi pubblici di distribuzione semi-gratuita delle sementi a favore degli agricoltori e, dall’altro lato, l’introduzione di privative che tutelassero i nuovi ritrovati: cosa che puntualmente avvenne con il Plan Patent Act del 1930. In Italia si svilupparono modelli contrattuali specifici, conosciuti sotto il nome di affitto del garofano, che proteggevano l’innovazione vegetale sul piano negoziale. La Convenzione UPOV del 1961 consacrò definitivamente la specialità dell’innovazione in campo vegetale, introducendo una privativa sui generis a tutela dei costitutori e sviluppatori di nuove varietà vegetali.

In questo contesto, il tema dell’accesso all’innovazione in campo vegetale rappresenta una questione tanto antica, in quanto ha sempre accompagnato i rapporti tra evoluzione tecnologica e normativa, quanto attuale, per le ragioni evidenziate in precedenza. Non è semplice raggiungere un equilibrio tra l’esigenza di favorire l’accesso ai nuovi ritrovati e quella di tutelare le privative che vi sono sottese; credo, tuttavia, che alcune riflessioni possano essere svolte nella consapevolezza che non esistono formule magiche. In primo luogo, ritengo si debba non solo prendere atto, ma anche valorizzare la specialità delle privative che riguardano i nuovi ritrovati vegetali. Parlare di proprietà intellettuale applicata al settore meccanico o al settore agroalimentare non è la medesima cosa, sia perché la seconda si applica al vivente sia (soprattutto) perché nel secondo caso le privative in inseriscono in un orizzonte di valori e principi rappresentati dalla Politica Agricola Comune. L’implicazione sul piano operativo è rappresentata dalla necessità di leggere le regole che informano le privative vegetali alla luce anche di quei valori e principi, evitando tendenze interpretative appiattite eccessivamente sulla proprietà intellettuale.  Nel caso dell’innovazione in campo digitale, il discorso è in parte diverso se non altro perché manca, dall’angolo visuale delle privative, quella specialità che invece oggi caratterizza l’innovazione vegetale. E tuttavia non si tratta di una lacuna che deve necessariamente essere colmata. Anche in questo caso, infatti, sarebbe probabilmente sufficiente, in sede interpretativa, contestualizzare le regole ‘trasversali’ che riguardano l’innovazione digitale, tenendo conto delle peculiarità, in termini di obiettivi, principi e regole, che informano la disciplina del settore agroalimentare. In altri termini, anche nel caso delle nuove tecnologie digitali diviene opportuno, a mio modo di vedere, recuperare l’orizzonte della Politica Agricola Comune al fine di evitare soluzioni interpretative che accomunino settori piuttosto diversi. Accanto a questa prima riflessione, di ordine generale, si possono poi auspicare interventi correttivi più diretti e circoscritti, quali ad esempio l’estensione della disciplina in materia di pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare (prevista a livello europeo dalla Direttiva 633/2019) anche alle relazioni che hanno ad oggetto la fornitura di input (inclusi i servizi digitali); o, ancora, un più attento esame da parte delle autorità antitrust delle acquisizioni e fusioni che interessano le società che forniscono fattori di produzione e servizi digitali in agricoltura. Un’ultima riflessione, ma credo la prima in ordine di importanza, riguarda la necessità di valorizzare l’associazionismo, che ha una tradizione robusta in agricoltura se solo si pensa al ruolo che la cooperazione ha storicamente svolto nel settore.

 

L’open innovation e le piattaforme digitali stanno trasformando diversi settori, compreso quello agroalimentare. Secondo lei, Prof. Ferrari, quali modelli di cooperazione digitale potrebbero facilitare la condivisione di conoscenze e risorse tra pubblico e privato, senza compromettere la tutela della proprietà intellettuale sulle nuove varietà vegetali?

Riprendendo le riflessioni sulla cooperazione, sono convinto che la strada più promettente per giungere a realizzare un equilibrio, per quanto dinamico, tra tutela della proprietà intellettuale e accesso all’innovazione sia quello di lavorare su forme aggregative (associazioni, cooperative, consorzi, contratti di rete, partnership pubblico-privato, altre forme ibride) che facciano sedere attorno allo stesso tavolo attori che, sebbene portatori di interessi in parte diversi, sono accomunati dalla volontà comune di sviluppare e utilizzare nuovi ritrovati. L’innovazione, infatti, necessita di collaborazione perché una cosa è sviluppare un nuovo ritrovato in laboratorio, un’altra cosa testarlo in campo e un’altra ancora perfezionarlo nel tempo a fronte delle indicazioni che giungono dagli utilizzatori. Si pensi al caso dell’innovazione vegetale, in cui la nuova varietà, dopo essere stata costituita in un centro di ricerca (pubblico o privato), deve essere selezionata tramite apposite prove in campo (ad esempio da vivaisti) per poi essere coltivata dagli agricoltori, i quali valuteranno le condizioni ottimali (in termini di esposizione, terreno, clima, etc.) per lo sviluppo di quella varietà. Creare un’aggregazione che permetta a questi soggetti di collaborare può essere di interesse reciproco; al contempo, i temi dell’accesso all’innovazione e di come distribuirne il valore dovrebbero rappresentare due questioni non secondarie nel disegnare l’assetto aggregativo.

Anche nel caso dell’innovazione in campo digitale credo vi siano ampi spazi per l’associazionismo, ad esempio di tipo cooperativo. Il Data Governance Act (Regolamento 2022/868) prevede la figura delle cooperative di dati, che potrebbero avere un ruolo significativo nel settore agricolo; ma anche il Data Act (Regolamento 2023/2854) lascia immaginare un ruolo per le cooperative agricole, le quali potrebbero agire come rappresentanti dei propri membri/utenti nel negoziare con i terzi le condizioni di condivisione dei dati. Su un piano più generale, il Regolamento 1308 del 2013, che disciplina i mercati dei prodotti agricoli, potenzia rispetto al passato il ruolo delle associazioni dei produttori (incluse le cooperative), le quali potrebbero acquistare sul mercato servizi digitali in forma collettiva per poi metterli a disposizione dei propri membri, sviluppare internamente parte di questi servizi sempre a beneficio dei propri membri, così come svolgere attività di formazione volte a ridurre il digital divide che caratterizza anche il comparto agroalimentare.

Non da ultimo, l’open innovation può giocare un ruolo determinante, probabilmente più con riguardo all’innovazione digitale che a quella vegetale in ragione del fatto che quest’ultima presenta costi di sviluppo e tempi di realizzazione che richiedono investimenti significativi e, quindi, una maggiore propensione a forme di tutela di tipo proprietario. Peraltro, open innovation e forme collaborative possono operare sinergicamente, in tal modo magnificando le ricadute positive in termini di accesso all’innovazione.

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