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La Suprema Corte ribadisce l’illegittimità dell’aborto eugenetico e l’inesistenza del diritto a non nascere (prime note su Cass., sez. III civ., sent. 11 aprile 2017, n. 9251).

di Filippo Vari* La sentenza 11 aprile 2017, n. 9251, della III sezione civile della Corte di Cassazione, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali, contiene alcuni significativi passaggi in materia di diritto alla vita e aborto.
Il giudizio era stato instaurato da una coppia il cui figlio era nato senza una mano. I genitori avevano agito sia in proprio, sia quali legali rappresentanti del minore, chiedendo il risarcimento del danno al centro medico presso cui erano state eseguite le indagini morfologiche durante la ventunesima settimana di gravidanza, per non aver diagnosticato tale malformazione.
I ricorrenti asserivano che, qualora avessero saputo della malformazione, avrebbero deciso di abortire.
Già la Corte d’Appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, aveva negato il risarcimento del danno.
La pronuncia della Cassazione respinge il ricorso ribadendo, anzitutto, che l’aborto, nell’ordinamento italiano, non può avere una finalità eugenetica.
Dunque, come ritenuto anche dai giudici di merito, la mancanza della mano del bambino non sarebbe stata sufficiente a giustificare l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 6 della l. n. 194 del 1978,[1] per il quale l’aborto, dopo i primi novanta giorni, può essere praticato nell’ipotesi in cui “la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” (lett. a) oppure “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (lett. b).
Il giudice di legittimità, richiamando la propria giurisprudenza,[2] sottolinea, infatti, come, in Italia, “l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente)” e che “le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante medesima, e non in sé e per sé considerate con riferimento al nascituro”.
Infatti, prosegue la Cassazione, “l’interruzione della gravidanza è ammissibile solo nelle ipotesi normativamente previste in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante, sicché la sola esistenza di malformazioni del feto non incidenti sulla vita o sulla salute della donna non consentono l’accesso all’aborto”.[3]
Per la Suprema Corte va, dunque, ritenuta congrua la valutazione operata dalla Corte d’appello di Milano, secondo la quale la mancanza di una mano del concepito non integrava il presupposto delle “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”, “normativamente previsto ai fini della configurabilità del requisito del «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» legittimante l’eccezionale possibilità di farsi luogo, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, alla relativa interruzione”.
La Cassazione rigetta anche il ricorso proposto dai genitori come rappresentanti legali del figlio minore, ribadendo l’orientamento, già espresso dalle Sezioni Unite,[4] per il quale il “diritto a non nascere se non sani” non è configurabile, dal momento che esso va “incontro alla… obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza”.[5]
Tornano, così, alla mente – sia pure scritte con riferimento ad altra fattispecie – le parole di Francesco Carnelutti. All’inizio degli anni ’50, l’illustre studioso con forza ricordava che “se un malato val meno d’un sano, a fortiori la vita, anche d’un malato, vale qualcosa, mentre la non vita non vale nulla”, come dimostra il fatto che, “per chi non confonde il male col morbo e col dolore, proprio la vita d’un malato può raggiungere le vette più alte: se Leopardi fosse stato un atleta, mancherebbe, assai probabilmente, al mondo una delle sue bellezze più pure”.[6]
*Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Europea di Roma
Note
[1] Per un’analisi critica di tale legge, come pure della giurisprudenza costituzionale in materia d’interruzione volontaria della gravidanza, sia consentito il rinvio a F. Vari, Considerazioni critiche sull’espressione secondo la quale il concepito «persona deve ancora diventare», in Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari, 2012, 1169 ss.
[2] In tal senso v. anche Corte Cass., sez. III civ., sent. 29 luglio 2004, n. 14488, in Foro it., 2004, I, 3327 ss.; Corte Cass., sez. III civ., sent. 14 luglio 2006, n. 16123, in Corr. giur., 2006, 1691 ss. In senso contrario all’aborto eugenetico v. inoltre Cass., SS.UU., sent. 22 dicembre 2015, n. 25767, in Resp. Civ. prev., 2016, 162 ss.; Cass., sez. III civ., sent. 11 maggio 2009, n. 10741, in Dir. fam., 2009, 1159 ss., nella quale si afferma che l’art. 32 della Costituzione, “riferendosi all’individuo quale destinatario della relativa tutela, contempla implicitamente la protezione del nascituro” (su tale decisione v. G. Ballarani, La Cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti dottrinali per una lettura “integrata” dell’art. 1 c.c., ibid., 1180 ss.); Corte cass., sez. III civ., sent. 22 novembre 1993, n. 11503, in Nuova Giur. Civ., 1994, 690 ss.
Al riguardo cfr. A. D’Aloia, Norme, giustizia, diritti nel tempo delle bio-tecnologie, in AA.VV., Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Atti del seminario di Parma svoltosi il 19 marzo 2004, a cura di A. D’Aloia, Torino, 2005, XXVII.
[3] Così anche Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, cit.
[4] Corte Cass., SS.UU., sent. 22 dicembre 2015, n. 25767, cit.
[5] Sul tema nella vasta dottrina v. F.D. Busnelli, La tutela giuridica dell’inizio della vita umana, in AA.VV., La tutela giuridica della vita prenatale, a cura di R. Rossano – S. Sibilla, Torino, 2005, 38 ss.
[6] F. Carnelutti, Postilla a Tribunale di Piacenza sent. 31 luglio 1950, in Foro it., 1951, 990 s.