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Il “terremoto” digitale che investe le Università: l’analisi dell’Economist sui Massive open online courses

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“Mentre molti studenti sono impegnati a programmare le proprie vacanze, le Università si trovano ad affrontare le domande sul loro futuro”. Inizia così un recente focus dell’Economist sui principali problemi che affliggono gli istituti di istruzione superiori sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Un percorso che, ça va sans dire, incrocia, in alcuni casi con un impatto violento, le nuove forme di apprendimento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione in modalità sempre più varie e accessibili. Il primo fattore di crisi per gli istituti ad alto tasso di innovazione è comunque rappresentato dalla costante crescita dei costi che bisogna sostenere per ammodernare la dotazione di tecnologica delle strutture, dinamica alla quale si sommano l’aumento delle retribuzioni di insegnanti e struttura amministrativa e la riduzione di finanziamenti pubblici; il secondo, la necessità di garantire una formazione continua che non si esaurisce nel solo percorso accademico ma che prosegue, per molte classi di lavoratori, per tutto il percorso professionale; il terzo, come sopra accennato, la concorrenza di una schiera di corsi online gratuiti che, una volta intercettato il nodo di una rete sociale, “finisce per propagarsi a molti anche tramite dispositivi mobili”. L’esplosione di circolazione di conoscenza, di per se stessa valore positivo assoluto, è comunque alla base dell’esigenza di ripensamento di un intero modello di business per l’istruzione superiore, incentrato sulla possibilità di intercettare questa nuova e crescente “domanda di istruzione” che trova sfogo nei Massive open online courses (MOOCs), inaugurati nel 2008 in Canada e divampati nel 2012. I corsi diffusi tramite la rete e le applicazioni beneficiano di bassi costi di start e “potenti economie di scala”, ma soprattutto slegano l’apprendimento dalla necessità di luoghi fisici e orari stabiliti. Tutti fattori che, a detta di Clayton Christensen della Harvard Business School, “contribuiranno a mandare in bancarotta più della metà delle Università americane nell’arco di 15 anni”. Se molte istituzioni prestigiose come Oxford e Cambridge hanno rifiutato di utilizzare le nuove piattaforme, il fondatore di SkilledUp Nick Gidwani paragona il cambiamento in corso nel mondo dell’istruzione superiore al passaggio dall’editoria tradizionale a quella veicolata dagli strumenti digitali, chiosando: “È difficile vedere un futuro per un modello basato su 200 professori che forniscono tutti la stessa lezione”. Tuttavia, restano per gli istituti fisici alcune prerogative che sembrano difficili da riprodurre tout court in un ambiente mediato dalle nuove tecnologie, come la creazione di capitale sociale tramite le dinamiche interpersonali che si sviluppano all’interno di un edificio dedicato alla formazione.  Fa sorridere in tal senso, per aggiungere con una nota di colore, una delle immagini che accompagna l’articolo pubblicato sul sito del prestigioso magazine londinese, nella quale si vede un gruppo di ragazzi immersi nella schiuma con la quale stanno, con tutte le probabilità, festeggiando la fine dei corsi; al posto della didascalia, quella che suona come una call ad entrare nel campus fisico: “You can’t do this online”. Ma c’è chi pensa a modelli di contaminazione. Come Anant Agarwal, amministratore di EDX, uno dei maggiori provider di MOOCs no-profit gestito da Harvard e dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), il quale propone di mettere a punto format flessibili che vedrebbero gli studenti americani frequentare un anno di apprendimento introduttivo a distanza, due anni di studio classico e un quarto e ultimo anno di lavoro part-time abbinato allo studio online. Il tutto con ulteriore riguardo per un’offerta in grado di intercettare anche chi, per impegni extra-curriculari, ha necessità di svincolarsi dalle rigide maglie di un’organizzazione universitaria classica, o semplicemente chi voglia elaborare un percorso di studi fortemente personalizzato. Ci sono poi gli istituti che hanno da tempo affiancato ai corsi canonici i seminari e gli appuntamenti online e multimediali. 20140628_FBC127_0 Intanto un altro grande player del mondo MOOCs, Coursera, ha implementato meccanismi di riconoscimento degli studenti per evitare gli imbrogli sulla frequentazione dei corsi, mentre si cercano rimedi al fatto che il tasso di abbandono per questo tipo di corsi sia più alta rispetto a quello che si registra tra i banchi delle aule dei campus, e che invece il numero di studenti che supera i corsi sia sensibilmente più basso. Serpeggia inoltre tra gli studenti la preoccupazione che i crediti acquisiti grazie ai MOOCs non vengano riconosciuti all’interno di percorsi di studio in istituti universitari classici o che gli attestati acquisiti non servano loro a trovare lavoro. In questo senso, sottolinea l’Economist, potrebbero fare scuola le indicazioni contenute nella Convenzione di Lisbona sulla possibilità di trasferire i crediti tra le Università dei Paesi firmatari indipendentemente dal tipo di percorso di studi seguito. Intanto l’offerta di MOOCs avanza e sembrano entrare nel business anche i colossi delle telecomunicazioni e gli Over the Top, con sempre più diversificate fasce di costo per i corsi. Una rimodulazione delle rette che sembra destinata ad investire gli istituti chiamati a reggere questo tipo di terremoto,  mentre a poter guardare con più serenità al futuro sono gli istituti che da un lato hanno un grande brand e, ancor più importante, un grande potenziale di network e robusti collegamenti col mondo del lavoro, anche su base locale. 4 luglio 2014

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