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Intervista al Prof. Guido Noto La Diega per la recente pubblicazione: “Internet of Things and the Law: Legal Strategies for Consumer-Centric Smart Technologies”

Il Prof. Avv. Guido Noto La Diega e’ un giurista esperto nel diritto delle nuove tecnologie, tutela del consumatore, diritto d’autore e diritto industriale. Il Prof. Noto La Diega e’ Associato di Proprietà Intellettuale e Privacy alla University of Stirling, dove e’ Direttore del Just AI Lab, Coordinatore dello Scottish Law and Innovation Network (finanziato dalla Royal Society of Edinburgh), titolare degli insegnamenti di Proprietà Intellettuale e Diritto dei Media e il Vicepresidente del Comitato per l’Uguaglianza, la Diversità e l’Inclusione.
Formatosi presso la Scuola palermitana del diritto civile e alla Queen Mary University of London, il Prof. Noto La Diega e’ autore del libro Internet of Things and the Law: Legal Strategies for Consumer-Centric Smart Technologies (Routledge 2022) ed è al momento alla guida di “From Smart Technologies to Smart Consumer Law: Comparative Perspectives from Germany and the United Kingdom”, progetto internazionale di ricerca da mezzo milione di sterline finanziato dagli equivalenti inglese e tedesco del CNR.
Di la’ dalla Scozia, il Prof. Noto La Diega ha lavorato in Italia, Inghilterra, Germania, Svizzera, Brasile e Russia ed e’ attualmente componente del Gruppo di Esperti della Commissione Europea su Intelligenza Artificiale e Istruzione, Fellow del Centro Nexa su Internet e Societa’ di Torino nonche’ Martin-Flynn Global Law Professor alla University of Connecticut.
Il Prof. Avv. Guido Noto La Diega
La Sua pubblicazione è tra le analisi più complete e aggiornate in merito alle questioni legali nell’Internet of Things (IoT). A Suo avviso perché l’IoT è inteso come un fenomeno sociotecnologico?
C’è un crescente interesse scientifico e giuridico per l’IoT (non ancora ai livelli dell’IA), ma la maggior parte delle analisi si focalizzano su tutela dei dati personali e cybersecurity. Mentre non nego l’importanza di suddette questioni, mi pare ci sia bisogno di studi che si occupino dell’impatto dell’IoT sull’intero arco dei diritti fondamentali e che diano conto di come questo fenomeno – che vede l’emergere di sistemi a continuum ciberfisico – ci costringa a ripensare pressoché tutte le dicotomie su cui è edificato il diritto. E che considerino le ripercussioni di lungo periodo sul tipo di società in cui viviamo, che richiedono una riflessione für ewig, in termini gramsciani. Ho ripreso l’espressione “fenomeno sociotecnologico” dal bel libro Re-engineering Humanity di Brett Frischmann e Evan Selinger. Troppo spesso l’IoT viene considerato come un mero costrutto informatico e se cosi’ fosse, una volta che siano risolti i relativi problemi tecnici (ad es. la tensione fra prestazioni e durata della batteria) non ci sarebbe alcunché di cui preoccuparsi. Invece no. I dispositivi ‘smart’ sono dovunque attorno a noi (smart cities), nei nostri spazi più privati (smart home) e financo dentro di noi (smart health), al punto che ci stiamo trasformando in cyborg le cui autonomia e autodeterminazione sono visibilmente ridotte. Il passaggio da cittadino a consumatore non è nuovo, ma, come ha notato Ugo Mattei, più i dispositivi sono smart più ci trasformiamo in consumatori “dumb”, depoliticizzati e privi della capacità di reagire agli abusi delle multinazionali smart. Marx stesso aveva notato come l’uso delle macchine in fabbrica trasformi l’operaio in un’appendice della macchina e lo isola dagli altri operai, a beneficio dei padroni. Nel capitalismo smart, siamo tutti operai – produciamo dati: la merce più importante sui mercati dell’IoT – e le macchine non sono più solo in fabbrica: ridotte a chip e sensori, sono l’ossatura dell’intera realtà ciberfisica che ci circonda.
Come mai l’IoT viene identificato principale responsabile dell’evoluzione della tutela della proprietà tramite la rimaterializzazione di dati, conoscenza e potere all’interno di un mondo fisico “intelligente”?
Da oltre un secolo, i giuristi si affannano a riflettere sui limiti dell’estensione di discipline concepite per una realtà tangibile e analogica ad una immateriale e digitale. Paradigmatica è la questione dell’esercizio dei poteri di fatto possessori sui beni immateriali, riportata in auge dal saggio Possessing Intangibles di João Marinotti. Intendiamoci, la smaterializzazione, digitalizzazione e tokenizzazione dei beni meritano di mantenere un ruolo centrale e la moda degli NFT – che sia transeunte o meno – ne è prova. E però la riflessione giuridica non ha dedicato sufficiente attenzione al fenomeno opposto: quella che nel mio libro chiamo la “rimaterializzazione”. Il punto di partenza è che – dopo decenni in cui il potere e la ricchezza hanno subito uno slittamento dai beni immobili, a quelli mobili, e infine a quelli immateriali – stiamo assistendo al ritorno delle “cose”: non solo IoT, ma anche stampa 3D e robotica. Il punto non è solo che i beni tangibili riacquisiscono importanza. Il punto è che il bene “smart” è un ibrido che non può essere sussunto nelle categorie tradizionali di bene. I dispositivi “smart” costituiscono un amalgama di hardware, software, dati, servizi, contenuti digitali. A ben vedere, la principale sfida euristica dell’IoT consiste per l’appunto nel comprendere la natura non-binaria del bene smart, che rifugge la dicotomia materiale-immateriale e ci costringe a ripensare il bene non come categoria, sibbene come uno spettro fluido. Come si applicano leggi che presumono l’immaterialità del loro oggetto (ad es. i dati nel Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali) ad ibridi ciberfisici? Cosa resta di un diritto binario (bene/servizio, online/offline, materiale/immateriale, ecc.) in un mondo in cui software, dati, servizi, contenuti digitali acquisiscono materialità?
La legge può guidare questa rimaterializzazione in una direzione incentrata sull’uomo e socialmente giusta?
Fino a un certo punto. Buona parte del mio libro è dedicata ad interpretare il diritto vigente estensivamente onde affrontare una serie di problemi dell’IoT che ne impediscono lo sviluppo antropocentrico e in linea coi dettami della giustizia sociale. Soprattutto grazie alla flessibilità di principi e clausole generali – a cui la migliore civilistica è tornata a dedicarsi negli ultimi anni – il diritto si può adattare alle nuove tecnologie e le frequenti affermazioni che ne dichiarano affrettatamente la desuetudine o financo la crisi richiederebbero maggiore cautela (in tal senso concorso con l’afflato di Runaway Technology di Josh Fairfield). Nel mio libro ho anche avanzato proposte di riforma del diritto privato europeo latamente inteso onde rispondere a una serie di sfide, segnatamente il ginepraio contrattuale, la regolazione privata tramite bricking, l’IoT-commerce, la cyborg-vulnerabilità, l’Internet of Personalise Things, l’Internet of Loos, e la morte della proprietà. Per quanto il diritto, conditum e condendum, possa e debba far parte del nostro armamentario, non dobbiamo peccare di “giustecnosoluzionismo”. Con Dencik e Hintz, ritengo non si possa affidare alla tecnologia e al diritto – o a una combinazione dei due, come negli approcci di tutela dei dati personali “by design”, troppo spesso acriticamente celebrati – la soluzione dei problemi antropologici e sociologici creati dall’IoT. La tecnologia non è neutra – è sempre espressione di scelte politiche ed ipostatizzazione delle dinamiche di potere in atto – e il diritto è il prodotto della classe dominante e in quanto tale è al servizio della conservazione dello status quo. In questo senso, il marxismo giuridico riportato in auge da Luca Nivarra e altri torna a fornirci indicazioni importanti. Un assunto chiave di una teoria marxista del diritto è il rifiuto del feticismo giuridico: il diritto non è una componente essenziale dell’ordine sociale; per converso, esso opera come un’ideologia raffinata e pervasiva al fine di offuscare le strutture del dominio di classe. Sulle orme di Marx, non nego che il diritto e la sua riforma possano giovare a noi, nuovi proletari “smart”, ma non ci si può dimenticare che il diritto – e direi anche le tecnologie – sono uno strumento di oppressione di classe, che assopisce invece che risvegliare la coscienza di classe. Il binomio diritto e IoT aiuta i capitalisti a evitare che i lavoratori acquisiscano coscienza dei propri interessi e si organizzino per agire in comune. Non tutto è perso, però. Il fatto che il comportamento umano sia condizionato da fattori esterni (condizioni economiche, diritto, apparato tecnologico) non equivale ad abbandono nichilistico: la consapevole azione collettiva può ancora trasformare le società, punto su cui se vorrà posso tornare.
Come a Suo avviso le leggi esistenti possono essere interpretate per potenziare gli utenti finali dell’IoT?
Come dicevo, sebbene il diritto non fornisca le soluzioni più originali e interessanti, non per questo bisogna rinunciare a brandirlo contro i padroni dell’IoT. Gli esempi abbondano ma mi limiterò a uno in materia di IoT-commerce. Il passaggio dall’e-commerce all’IoT-commerce – dove ogni dispositivo smart (orologio, frigorifero, automobile) diventa strumento per l’acquisto di beni – crea una serie di problemi in parte inediti. Gli ecosistemi IoT sono immersivi, iperconnessi e con interfacce limitate. Immaginiamo di trovarci in una casa smart, dove ogni elettrodomestico, mobile, soprammobile, ecc. è connesso a internet e pronto, 24 ore su 24, ad effettuare un acquisto in nome e per conto tuo. Alcuni di questi oggetti avranno interfacce “tradizionali”, cioè schermi su cui puoi visualizzare le informazioni chiave relative al bene e alla transazione, prima di autorizzarla. Un numero crescente di dispositivi ha schermi di dimensione non sufficiente alla lettura di testi complessi o addirittura non ha alcuno schermo (ad es. rispondono solo a comandi vocali). Questo cambiamento non è senza conseguenze giuridiche, su cui rinvio agli studi della brava Eliza Mik, io mi limiterò ad alcune noterelle in materia di obblighi informativi precontrattuali. Come è noto, prima della conclusione del contratto, il professionista deve informare il consumatore sulle circostanze rilevanti e gli elementi essenziali del negozio ad es. oggetto del contratto, prezzo, contraenti, ecc. (il c.d. meccanismo di ‘notice and consent’). Nel caso di contratti a distanza, a determinate condizioni, l’informativa dev’essere leggibile. La parola ‘leggibile’ ha fatto temere a Karin Sein e altri colleghi che le norme sugli obblighi in esame siano superate o non siano piu’ applicabili all’IoT-commerce perchè ‘leggibile’ presuppone l’esistenza di un testo scritto e non v’e’ alcun testo scritto se manca uno schermo su cui visualizzarlo. In realtà, il concetto di leggibilità – sebbene originariamente riferito a paradigmi di tipo testuale – ha subito una mutazione genetica negli ultimi anni grazie al profluvio di studi in materia di spiegabilità dell’IA. Mi sembra che si possa sostenere agevolmente che, mentre gli algoritmi IA-scatole nere ridisegnano l’intera architettura dell’esistente, i requisiti di leggibilità possano essere interpretati in modo da includere qualsiasi forma di intelligibilità. Nel libro propongo anche soluzioni di legal design, ma su questo torneremo magari un’altra volta.
Tornando al tema di un’azione collettiva del comportamento umano, il quale, come ci diceva poco fa, nonostante sia condizionato da fattori esterni non deve per forza esprimersi come un abbandono nichilistico. Qual è il motivo per cui nel suo volume Internet of Things and the Law: Legal Strategies for Consumer-Centric Smart Technologies fa un appello finale alla resistenza collettiva contro il capitalismo “intelligente”?
Nel tentativo di contribuire a un suo sviluppo nella direzione di un antropocentrismo socialmente orientato, Internet of Things and the Law prova a risolvere alcuni dei problemi dell’IoT mobilizzando congegni giuridici che si rinvengono del diritto dei consumatori stricto sensu (clausole vessatorie, garanzia di conformita’, informativa precontrattuale, responsabilita’ da prodotti difettosi, pratiche commerciali scorrette) e lato sensu (tutela dei dati personali, proprieta’ intellettuale, diritto della concorrenza). Come detto, le soluzioni di ermeneutica giuridica e de iure condendo mi hanno lasciato insoddisfatto. Ho gia’ sottolineato i limiti intrinsici del diritto in ottica marxista. Aggiungerei che i processi legislativi di riforma hanno chiare limitazioni dovute alla loro lentezza (l’isteresi di pardolesiana memoria), al ruolo crescente delle lobby big tech, all’ignoranza tecnologica del legislatore e al fatto che la legge – un po’ come il codice oggetto delle macchine – tende sistematicamente a introdurre concetti binari che non riflettono la fluidita’ del reale. Altri tentativi di regolare le tecnologie si sono affidati alle tecnologie stesse – approcci spesso deterministici, tecno-soluzionistici e tecnocratici – o all’etica, quest’ultima spesso utilizzata per finalita’ di ethics washing e problematica sotto molti profili, soprattutto quando i padroni dell’IoT portino avanti manifesti etici, codici di comportamento e simili come sostituti inoffensivi di regole vincolanti.
Sebbe una combinazione sapiente di diritto (vigente e riformato), soluzioni ‘by design’ ed etica possano far parte della soluzione ai problemi della societa’ smart, ho voluto dedicare il capitolo conclusivo del mio libro a soluzioni incentrate sui beni comuni. Hess e Ostrom hanno insuperatamente argomentato che le nuove tecnologie possono sia rafforzare i beni comuni che renderli piu’ vulnerabili. La maggior parte degli studi adotta il secondo approccio, io ho preferito percorrere la prima via. Il binomio beni comuni-tecnologia puo’ essere fecondemente osservato tramite due prismi: l’accesso aperto (alla conoscenza, al software, ecc.) e beni comuni a la Hardt e Negri, cioe’ le modalita’ di gestione e utilizzazione delle risorse in alternativa radicale a ‘privato’ e ‘pubblico’, con enfasi su forme di resistenza collettiva, comprese quelle extragiuridiche e financo illegali. Se per lei va bene, mi occupero’ solo di quest’aspetto nel tempo che ci rimane. Il punto di partenza e’ la lettura che David Harvey fa di Marx, il quale sconfesso’ la finzione lockiana per cui la proprieta’ privata deriva dal lavoro. Se cosi’ fosse, considerato che in fabbrica il lavoro e’ organizzato collettivamente, qualora vi sia un fondamento per il diritto di proprieta’, il lavoro potrebbe solo giustificare diritti collettivi, non individuali. Allo stesso modo, nel capitalismo smart (o ‘della sorveglianza’ per dirla con Shoshana Zuboff), noi utenti di dispositivi smart siamo in realta’ lavoratori senza saperlo perche’ siamo produttori di dati, la principale merce scambiata sui mercati smart: ne segue che dovremmo salire sulle barricate per avere riconosciuti diritti collettivi sull’IoT. Esempi di resistanza collettiva alle pratiche estrattive dei nuovi padroni si moltiplicano. Insuperabile nella sua forza simbolica e’ la vicenda dei contadini americani che, dopo avere acquistato la nuova generazione di trattori John Deere, si videro accusati di pirateria non appena provarono a riparare i propri trattori. I trattori ‘smart’ contengono software proprietario a cui e’ collegata una licenza che proibisce ai contadini di riparare i propri trattori, onde constringerli a rivolgersi solo a meccanici autorizzati da John Deere. Questo software era anche protetto da misure tecnologiche di protezione, simili a quelle modifiche a CD e DVD che da anni ormai ne impediscono la copia non autorizzata. La soluzione che i contadini trovarono – probabilmente illegale ma non per questo da trascurare – fu di forzare i lucchetti delle misure tecnologiche di protezione tramite firmware illegale sviluppato da un gruppo di hacker ucraini. Altri esempi comprendono inter alia i movimenti civici barcelloneti per la creazione di data commons urbani, l’azione della CGIL contro l’algoritmo discriminatorio di Deliveroo, i movimenti per il right to repair e tutte le iniziative dal basso dei circa 2000 IoT meetup in giro per il mondo e significativamente presenti nei paesi in via di sviluppo. Nel campo della resistenza collettiva agli abusi del capitale c’e’ molto da imparare dall’esperienza dei beni comuni ‘tradizionali’, cioe’ dall’esperienza dell’occupazione di parchi, teatri, colorifici, ecc. Quello che suggerisco e’ che l’IoT – che grazie alla ‘rimaterializzazione’ pone in non cale la dicotomia fra tangibile e intangibile – rappresenta un’opportunita’ senza precedenti di estendere il conflitto dal mondo fisico a quello ciberfisico. Quando ho presentato il libro al Centro Nexa su Internet e Societa’ di Torino, Marco Ricolfi ha con la consueta lungimiranza indicato che la questione cruciale da risolvere a questo punto e’ creare e mantenere alleanze fra i diversi collettivi che operano sul campo. In tal senso, credo si possa imparare molto dal padre nobile della critical race theory, Derrick A Bell jr. Bell presenta il concetto di interest convergence. Le persone di colore avranno riconosciuti i loro diritti – formalmente e sostanzialmente – solo quando i propri interessi convergeranno e saranno sovrapponibili con quelli dei bianchi. Pur nella societa’ depoliticizzata in cui viviamo, v’e’ una platora di movimenti che resistono collettivamente alle ingiustizie del presente. Di norma questi movimenti manifestano un interesse limitato per le ingiustizie scritte nel codice della macchine, si pensi a black lives matter e ai movimenti LGBTQ e femministi. Le eccezioni non mancano. Si pensi all’Algorithmic Justice League guidata da Joy Buolamwini, che fa luce sul c.d. machine bias, soprattutto con riferimento a sistemi di riconoscimento facciale razzisti. Qualche mese fa, ho trovato molto incoraggiante il lancio dell’Alliance for Universal Digital Rights (AUDRI). Cio’ che fa ben sperare e’ che quest’alleanza sia stata creata da Equality Now, un gruppo che lotta per i diritti delle donne, con Women Leading in AI. Due collettivi che tradizionalmente si sarebbero occupati ‘solo’ di questioni di genere oggi si organizzano e collaborano per realizzare la visione di diritti digitali per tutte e tutti. Solo quando, comprendendo l’importanza dell’interest convergence, riconosceremo – in controluce, nella filigrana delle eterogenee lotte per un societa’ piu’ giusta – la radice comune della nostra rabbia, potremo ‘occupare’ l’IoT e rivoluzionarlo al servizio di tutte e tutti.
a cura di
Valeria Montani