Agostino Clemente è avvocato, socio dello studio Ughi e Nunziante e docente di Diritto Industriale presso…
Sentenza Meta-Snaitech spa (ex-Snai): prima condanna in sede civile in Italia contro una piattaforma social network. Intervista all’avvocato della difesa, il Prof. Alessandro Benedetti

Per la prima volta in Italia una piattaforma social è stata condannata in sede civile per il contenuto diffamatorio pubblicato da un utente e non rimosso in tempistiche veloci. Snaitech spa, ex Snai, e due sue dirigenti sono stati difesi dall’Avv. Alessandro Benedetti.
Il Prof. Avv. Alessandro Benedetti è docente di diritto penale progredito (criminalità economica e responsabilità penale degli enti) presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma.
E’ stato difensore in numerosi procedimenti penali di rilievo nazionale, tra i quali il processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il processo per la c.d “strage di Ustica” e, più recentemente, il processo all’ex Presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo. Componente del Consiglio di Sorveglianza della S.S. Lazio Marketing & Communication s.p.a e componente dell’Organo di Indirizzo del Policlinico Umberto I di Roma.
Ha rappresentato e tuttora rappresenta alcuni imprenditori calabresi taglieggiati dalla ‘ndrangheta e costituitisi parte civile dinanzi ai Tribunali penali e Corti d’Assise di Palmi (RC), Paola (CS) e Rossano (CS). Dal giugno 2000 ad oggi ha tenuto numerose conferenze – sia nel nostro paese che all’estero – sulla criminalità organizzata italiana, collaborando in particolare con le ACLI in un progetto di formazione sulla legalità;
Il Prof. Alessandro Benedetti
Prof. Benedetti potrebbe spiegarci cosa riguarda esattamente la sentenza Meta-Snaitech Spa (ex Snai)?
La sentenza riguarda la pubblicazione sulla piattaforma Facebook di svariati contenuti diffamatori immessi in alcune pagine aventi ad oggetto espressioni lesive dell’onore e reputazione del noto Concessionario per il gioco lecito e dei suoi dirigenti apicali ai quali, nei singoli post, erano state falsamente attribuite una serie di condotte illecite. La predetta Società aveva chiesto a Facebook di rimuovere i suddetti contenuti illeciti ma aveva ricevuto riscontro negativo con la motivazione che non sarebbe stato chiaro perché il contenuto segnalato fosse diffamatorio, o comunque illecito, e violasse i diritti degli istanti. L’omessa rimozione da parte di Facebook dei contenuti illeciti ha implicato, pertanto, una volontaria condivisione del contenuto diffamatorio e per queste ragioni è stata convenuta in giudizio per vedere accertato il suo concorso, mediante omissione, nel delitto di diffamazione ai sensi dell’art. 40 cpv c.p. e dell’art. 110 c.p.
Grazie a questa sentenza quale principio di diritto viene affermato?
Viene affermato un principio importantissimo ovvero che, seppure si deve escludere l’obbligo di attivazione dell’hosting provider con riguardo alla diretta ricerca degli illeciti altrui allorché essi vengono immessi e diffusi nella rete, tale obbligo sorge nel momento della conoscenza dei fatti illeciti da parte del medesimo prestatore (Facebook). Dunque viene affermata una responsabilità civile di natura omissiva che si configura qualora l’hosting provider ometta di rimuovere i contenuti di cui conosce la manifesta illiceità, in quanto l’art. 16 del D.Lgs. n. 70/2003 fonda una c.d. posizione di garanzia dell’hosting provider che, se è estraneo alla originaria perpetrazione dell’illecito, ne diviene giuridicamente responsabile dal momento in cui gli possa essere rimproverata l’inerzia nell’impedirne la protrazione. Quindi, in altre parole, gli viene imputata una condotta commissiva mediante omissione per aver concorso nel comportamento lesivo altrui.
E’ bene evidenziare che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di un’ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole, come è chiaramente indicato dalla previsione che essa è subordinata alla conoscenza della manifesta illiceità dell’altrui condotta di cui non si impedisce la prosecuzione.
Per quanto riguarda poi la “manifesta illiceità dei contenuti”, la sentenza afferma che l’hosting provider è chiamato a delibare, secondo criteri di comune esperienza, alla stregua della diligenza professionale tipicamente dovuta: in altri termini vuol dire che deve essere possibile riscontrare la manifesta illiceità senza particolare difficoltà, alla stregua dell’esperienza e della conoscenza tipiche dell’operatore del settore e della diligenza professionale da lui esigibile, così che non averlo fatto integra una grave negligenza dello stesso.
A tale proposito la pronuncia del Tribunale di Milano ha evidenziato che non può condividersi il principio secondo il quale l’obbligo di rimozione di contenuti illeciti sarebbe configurabile unicamente qualora sussista un provvedimento dell’autorità giudiziaria che abbia accertata tale illiceità perché accedere a tale impostazione significherebbe concretamente vanificare la possibilità di attenuare in maniera tempestiva gli effetti lesivi di contenuti manifestamente illeciti.
A Suo avviso quali saranno gli effetti, sia sul piano giurisprudenziale che pratico, che andrà a produrre questa sentenza?
Sul piano giurisprudenziale spero tali principi diventino indirizzo univoco delle Corti di merito e di legittimità e che, sul piano pratico, ciò stimoli i diversi hosting provider a rafforzare il controllo e la vigilanza sui contenuti immessi nelle loro piattaforme a tutela dell’onore e della reputazione di tutti. Penso che ciò sia esigibile nei confronti di chi guadagna miliardi di euro l’anno e che perciò possa serenamente consentirsi una squadra di giovani professionisti (perché no, avvocati), in grado di “catturare” e rimuovere contenuti illeciti o diffamatori, almeno quando vengano formalmente segnalati alla piattaforma, come nel caso di cui mi sono occupato. Altrimenti ha poco senso continuare a parlare di responsabilità sociale dell’impresa o menare vanto di aver raggiunto standards, veri o presunti di eticità, inclusività e rispetto della persona.
Quale sarà l’impatto di questa sentenza sulle altre piattaforme social network?
Ritengo che il principio affermato nella sentenza della Tribunale di Milano valga anche per le altre piattaforme quali Twitter, Tik Tok, Instagram, ecc.
a cura di
Valeria Montani